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Riflessione n.2

Riflessione n.2 (10/9/17)
“… Insieme ai miei coetanei ho vissuto la fine della civiltà contadina come un dramma. Un passaggio epocale verso la modernità che capita a poche generazioni di vivere. Il fatto davvero drammatico, tuttavia, non solo a livello personale, è che nel giro di un trentennio è scomparso anche quel mondo che abbiamo chiamato modernità, che ci aveva attratto, illuso, deluso e che non ci aveva fatto rimpiangere il buon tempo andato e antico, che ora invece evochiamo per capire, per sentire, per ripartire. Non è un pianto. Certo non è stato facile e indolore vivere la fine di un mondo e il passaggio ad un altro, che non abbiamo ben compreso perché presto diventato non percorribile, ignoto, inquietante. Non da una civiltà all’altra siamo passati, allora, ma dall’umanita’ a una non umanità. E in questo universo in cui tutto cambia, perché non legarsi a ciò che resta, a ciò che dura, a ciò che parla di umano: il senso della morte, la pietà, la vicinanza, l’accoglienza e anche i sentimenti negativi (Vito Teti – quel che resta)

Nella mia esperienza lo smarrimento, che è sapientemente descritto in questo brano del libro di Vito Teti, nasce dalla percezione dell’obsolescenza dei modelli di organizzazione del lavoro, di aggregazione sociale e conseguentemente anche della non adeguatezza dei grandi centri urbani. L’obsolescenza è dovuta a una serie di condizioni che sono insorte degli ultimi trent’anni e la cui pervasività sta crescendo ad un ritmo esponenziale. Si pensi, solo a titolo di esempio, alla disponibilità di informazioni che caratterizza l’attuale società grazie alla diffusione di internet, all’insorgere dell’industria 4.0, alla creazione delle grandi basi data (big data), all’avanzata dell’intelligenza artificiale, all’impiego massivo delle biotecnologie, alle invenzioni dell’ingegneria genetica, agli sconvolgimenti dovuti ai cambiamenti climatici, alla perdita di interi ecositemi, alle bibliche migrazioni di massa, alla pervasività del potere e dell’ingerenza dei potentati finanziari ed economici …).

Ognuno di tali processi, inimmaginabile nella sua potenza dieci anni fa, è in grado di apportare modifiche rievanti al nostro mondo e alla nostra umanità. L’azione di tutti questi fenomeni insieme rende assolutamente non prevedibili gli sviluppi e i cambiamenti futuri e ci restituisce la chiara percezione dell’obsoloescenza del concetto di modernità in cui abbiamo creduto e sulla base del quale abbiamo costruito le nostre esistenze. Viene così alimentata la sensazione di inadeguatezza dell’essere umano a contollare tali scenari e conseguentemente un diffuso sentimento di insicurezza del nostro futuro e di quello delle gererazioni oche verranno. 

Che ci rimane allora? Noi stessi e la speranza di costruire un futuro diverso ripartendo dalla vera essenza dell’uomo quale essere sociale, progettando le organizzazioni lavorative, sociali, urbane intorno all’uomo e ai suoi bisogni, favorendo la simbiosi virtuosa con il pianeta. Ma questo è proprio quello che aveva caratterizzato i nostri piccoli centri urbani prima ancora dell’avvento dell’era industriale. Certamente non è questo un nostalgico rimpianto di un modo di vivere che, se ben ricordato, era caratterizzato per molti dalla privazione e dalla sofferenza ma se si analizza il modello sociale delle comunità in cui vivevano i nosti nonni potremmo trovare gli elementi per reinvientare il nostro futuro alla luce delle conoscenze e delle tecnologie oggi a disposizione.

Questa speranza, tuttavia, si scontra ancora con le logiche dello sfruttamento intensivo delle risorse e con la devastazione operata dagli uomini che, ignorando gli effetti di lungo termine delle loro azioni e guidati dai soli interessi economici di breve termine, si fanno strumento di distruzione del patrimonio su cui l’umanità potrebbe contare per reinventare le sue organizzazioni e garantire la sua sopravvivenza. 

Questo senso di impotenza e dell’inevitabilità della nostra sconfitta alimenta ulteriormente la sensazione di smarrimento. A questo stato d’animo dobbiamo opporci con gli strumenti, le conoscenze e competenze che ciascuno di noi possiede, nel luogo in cui si trova a vivere. E importante partecipare alla realizzazione di una propria visione sul lungo termine non solo della sua esistenza e quella dei propri figli e nipoti ma anche su quella dei vicini di casa, di quelli del quartiere o della comunità in cui abita e delle generazioni che verranno perché non ci sarà un futuro benessere se lo stesso non sarà condiviso.

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