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Riflessione n.5 (23/9/17)


“ I dibattiti e le riflessioni sulla ricostruzione, allora, non possono eludere il fatto che il luogo antropologico “per eccellenza”, il “luogo sacro” di questa parte del mondo è l’entità geografica, abitativa, mentale, culturale che chiamiamo paese. Accanto alla varietà delle città … c’è la grande varietà e ricchezza dell’Italia dei paesi. I paesi, nelle loro varie manifestazioni e riproduzioni, sono stati i luoghi in cui è vissuta la maggior parte della popolazione mondiale fino a pochi anni fa. Il paese, la provincia, il centro urbano con forte tradizione e sensibilità comunitaria, i villaggi di poche centinaia di persone, gli agglomerati di poche famiglie … sono i luoghi dove si è svolta per secoli la vita degli italiani delle diverse regioni. … Quasi tutte le regioni italiane presentano una storia di catastrofi, abbandono, ricostruzione, che è necessario soltanto ricordare sia pure brevemente per meglio capire il senso dell’attuale dibattito … .”
“Le cose cambieranno quando i cittadini si sentiranno responsabili e coinvolti . E la memoria e la consapevolezza di una storia di abbandono e di ricostruzioni possono certo tornare utili nel dibattito attuale che, finalmente, sembra vedere diversi soggetti in campo, a cominciare dalle popolazioni colpite, concordi in una ricostruzione all’insegna del dov’era com’era … .”

“Forse la scommessa, oggi, è investire sulla memoria, sulla propria storia, su una nuova idea dell’abitare e dell’esserci nei luoghi. Un coinvolgimento democratico dal basso, con una base di informazioni scientifiche e storiche, controllabili e non tendenziose, … . Un’altra idea di sviluppo, che coniughi progettualità, sostenibilità e lavoro per i giovani tecnici, laureati, maestranze da impegnare in quella che a parole è la nostra grande ricchezza ; il paesaggio, le bellezze, l’arte, i centri storici, i siti archeologici da salvare, il cibo, i beni immateriali, una tradizione alta di socialità e convivialita’. Ne hanno bisogno i paesi che, tutto l’anno, non immobili ma aperti al mondo, ai ritorni e ai nuovi arrivi provano a resistere. …”(Vito Teti – quel che resta).

Mi sento pienamente in sintonia con la visione di un possibile futuro delineata Vito Teti nel libro.

È necessario, in quest’epoca di grandi cambiamenti (tecnologici, ecologici, sociali), scoprire chi siamo identificando i nostri punti di forza e le nostre debolezze. In questo modo individueremo peculiarità che ci rendono diversi dagli altri (non migliori ma diversi) e che la diversità è proprio la caratterisitca da cui partire per costruire un futuro possibile.

Affinché questa indicazione non rimanga un concetto astratto Teti indica quello che dobbiamo fare:

 investire sulla memoria, sulla propria storia, 

Per prendere coscienza del nostro essere dobbiamo investire tempo, energia e risorse per comprendere chi siamo stati e individuare le cause e le ragioni che hanno forgiato le nostre popolazioni. Per questo è fondamentale studiare la nostra storia e comprendere le generazioni che hanno abitato i luoghi prima di noi da un punto di vista antropologico, economico, abitativo, letterario, sociale, … . L’archeologia e’ una disciplina di grande aiuto così come lo studio della letteratura della botanica, della zoologia, dell’economia, dell’alimentazione … .Vengono così individuate le ragioni che hanno premesso alle passate generazioni di insediarsi e di prosperare in questi luoghi.

diventare responsabili e coinvolti, 

Essere consapevoli dei nostri punti di forza potrebbe indurrci ad un facile atteggiamento di autocompiacimento narcisistico che non producendo re-azione e quindi non è di alcuna utilità. E’ indispensabile contestualmente prendere coscienza delle minacce (in termini economici le minacce si identificano con il termine di rischio) che compromettono i nostri punti di forza e che in parte sono da ricercare nelle nostre debolezze e nei nostri vizi. Quindi dobbiamo prendere coscienza delle minacce in cui incorrono i nostri paesi, le nostre città, le nostre regioni e che sono collegati in prima istanza all’abbandono parte delle giovani generazioni, in seconda istanza all’assenza di prospettive lavorative o professionali soddisfacenti e scendendo ancora più profondamente alle origini di questa situazione alla crisi dell’agricoltura così come ora concepita, alla crisi della manifattura e delle attività di trasformazione dei prodotti, alla crisi delle attività di servizio. 

concepire un’altra idea di sviluppo che coniughi progettualità, sostenibilità e lavoro per i giovani laureati, tecnici, maestranze, … e investire su una nuova idea dell’abitare e dell’esserci nei luoghi.

I tecnici che si occupano di organizzazione e che lavorano nelle grandi società di consulenza internazionale potrebbero parlare di una “gap analisys” ovverosia di un attività in cui, viene inizialmente identificato il punto dove ci troviamo (in termini economici, sociali, ecologici, abitativi, …) , e successivamete deciso il punto dove vogliamo arrivare (declinato in termini di opportunità lavorative per le giovani generazioni, vivibilità delle città, stile di vita, servizi, …). La gap analysis permette di definire una “road map” ovverosia un percorso preciso e dettagliato composto di tante attività che, pianificate coerentemente nel tempo, permettono la costruzione progressiva della realtà che vogliamo.

Tutto questo processo deve essere supportato da un coinvolgimento democratico dal basso con una base di informazioni scientifiche e storiche controllabili e non tendenziose.

È imprescindibile non improvvisare e farsi supportare da tecniche e metodologie rigorose ma anche sviluppare un senso di solidarietà tra chi abita i luoghi. Tale condizione è necessaria per la relaizzazione di questo percorso che, se condotto correttamente, potrà offrire una speranza di sopravvivenza futura alle nostre comunità. La soluzione non potrà mai essere una soluzione individuale ma necessariamente collettiva.

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